Competenze relazionali nelle organizzazioni: come avviene l'apprendimento
L’apprendimento più potente in una organizzazione, soprattutto quello delle competenze relazionali, non avviene nei corsi di formazione, ma negli innumerevoli scambi che avvengono lavorando, fra le pieghe dell’anima dei leader e dei loro collaboratori, nei team dove insieme a informazioni e risorse ci si scambiano, senza accorgersene, pezzi di vita ed emozioni mal tollerate che danneggiano o al contrario sviluppano la progettualità, senza essere riconosciute nella loro potenza energetica e capacità di portare a compimento o meno il compito che il gruppo si è dato. Di solito il riconoscere le ansie prodotte da emozioni relazionali viene percepito nei team come debolezza e fragilità individuale, il “mito luminoso della ingegnerizzazione” (Quaglino 2004) non permette di riconoscere appieno il valore disturbante dei più noti virus di quel software così raffinato che è l’individuo in un sistema organizzato.
I sistemi di protezione che potrebbero essere messi in atto non sono coerenti con la cultura delle organizzazioni oggi prevalente, è l’idea stessa di individuo che lavora ancora avvolta da un senso di impermeabilità emozionale e sopravvalutata razionalità, anche nel campo relazionale. Osserviamo quante aspettative, spesso disattese, pongono direttori e alto management nel lavoro di squadra, quante proiezioni di onnipotenza sviluppa l’idea del gruppo di super-tecnici, richiami ad una entità mitica che tutto affronta e risolve. Proclami di necessaria interdipendenza senza alcuna seria riflessione sull’implicazione profonda che il gruppo e il suo leader muovono agli strati profondi del sé, riattualizzando vissuti e stili di comunicazione legati a esperienze primarie, a emozioni e conflitti che ogni volta comprimono lo spazio della relazione gruppale, senza mai essere nominati o com-presi nelle fatiche del lavoro di squadra.
Ricordo lo stupore nei volti delle persone a cui suggerivo un de-briefing finale dopo il lavoro di un team particolarmente faticoso, quando raccomandavo di inserire nella metodologia di gruppo, come elemento protettivo/preventivo, un momento in cui affrontare l’andamento delle relazioni di gruppo dopo aver lavorato intensamente sul compito. Suona strano il consiglio di parlare di come siamo stati a una riunione in cui magari si è progettato una complessa azione strategica o si è analizzato il budget dei vari dipartimenti, ma a ben guardare è quello che tutti fanno, a gruppetti, a due davanti alla macchina del caffè, dislocando dal centro dell’attenzione pubblica una funzione ineludibile per il buon andamento dei gruppi, rimandando alla sfera del privato ciò che appartiene alla vita pubblica e reale del gruppo.
Evidenziare le emozioni e le relazioni e contestualizzarle alla vita organizzativa, è una azione strategica per trasformare stati di tensione collegate all’inevitabile competizione, è un sistema di protezione del gruppo paragonabile alle misure di sicurezza in campo ambientale. Lo si fa nel migliore dei casi come forma spontanea di socializzazione a supporto di gruppi di appartenenza e fedeltà, non se ne vede e non se ne intuisce la capacità di trasformazione che anche una piccola variazione del genere potrebbe introdurre nell’affannosa rincorsa all’eccellenza. Dedicare 10 minuti del lavoro a scambiare impressioni sui temi della convivenza, sulle modalità e gli eventi della relazione, dare spazio a chi ha avuto qualche particolare intuizione sulle dinamiche di quell’incontro, costruire una cultura basata sulla condivisione, in cui ci si pone di fronte ai meeting con la consapevolezza della complessità e della vastità profonda del condizionamento delle innumerevole relazioni precedenti nella storia degli uomini e delle donne che formano quel gruppo.
Spesso ci si chiede come mai le culture calviniste abbiano la capacità di interagire con un forte e determinato senso dell’organizzazione, uniti da un forte committment di gruppo più che da potenti attaccamenti all’individualismo. Forse molti non sanno che nella religione calvinista è tradizione la confessione dei propri peccati all’intera comunità, a cui segue un confronto trasparente sulle proprie motivazioni, alla ricerca di un fondamento comune di valori e comportamenti. La fedeltà e l’eccellenza delle organizzazioni si costruisce nel rinforzo e nella costruzione della comunità, nell’approfondimento della condivisione e nel riconoscimento dello spazio individuale nella costruzione dei valori, significati, credenze per implementare l’interiorizzazione dei sistemi di significati correlati all’appartenenza e alla cultura dell’organizzazione stessa.
Consideriamo anche che nelle organizzazioni, ma anche nella vita di tutti i giorni, è importante sapere quanto costa a livello di stress il far finta di nulla, il diniego e la negazione usati nel sopprimere un ricordo spiacevole hanno un costo neurologico, e non solo ciò che accade a noi ma anche assistere a eventi spiacevoli di altri ha un costo emotivo, una strapazzata non equa del capo ha un effetto negativo e un costo emotivo per tutti coloro che assistono. Ma pare poco razionale e inadeguato dare spazio a questi aspetti, la persona che lavora viene privata nel pensiero organizzativo della consapevolezza dell’enorme potenziale della sua sfera emotiva, e della potenza motivante di una vita relazionale praticata nella consapevolezza, riconosciuta, comunicata e come tale evoluta. Ancora Baumann (2009) ci dice nel suo ultimo lavoro “L’arte della vita” : “dobbiamo scegliere obiettivi che siano (almeno nel momento in cui li scegliamo) ben oltre la nostra portata e standard di eccellenza irritanti per il loro modo di stare bene al di là di ciò che abbiamo saputo fare o avremmo la capacità di fare. Dobbiamo tentare l’impossibile.”
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Rossella Renzini
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